Bad Company

Arezzo…
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Il Piatto del Giorno

Chi ti chiede consiglio non vuole veramente un consiglio, perché nessuno è in nessun caso disposto a lasciar prendere a un altro una decisione così angosciante e difficile da averlo portato a dover fingere di ammettere con se stesso di essere disposto a lasciar prendere la decisione a un altro. E lo stesso vale non solo per le decisioni angoscianti e difficili, ma anche per le decisioni frivole. Il fatto è che, in generale, possiamo ammettere che qualcun altro sappia fare qualcosa meglio di noi – qualcosa di tecnico, però, e con documenti e curriculum e risultati omologati alla mano –, ma nel caso specifico della nostra vita non c’è dubbio che, secondo noi, noi siamo i più competenti e i più tecnici e in ultima analisi i più indicati a prendere tutte quante le decisioni, e poco importa se, essendoci dentro, impaludati nella nostra vita fino al collo, non siamo mai abbastanza lucidi per farlo.
Da un certo punto di vista, sarebbe il caso di lasciar prendere le nostre decisioni solo agli altri: se tutti rinunciassimo a prendere le nostre decisioni e scegliessimo esperti o tecnici per fare al nostro posto le scelte della nostra vita, le cose andrebbero molto meglio, magari non nella singola scelta, ma sul lungo termine non c’è dubbio, e vivremmo tutti più razionalmente, e soprattutto non ci sarebbe lei che viene in lacrime a casa mia e mi dice che, dopo averlo pedinato, ha visto lui che scopava con un’altra, sul cofano di una macchina. “Che cosa devo fare?” mi chiede. Questa sembra la più limpida richiesta di un consiglio, no? Una specie di richiesta di consiglio retorica. "Che cosa vorrai mai fare?" ti viene da dire. Ma è solo presunzione credere che uno che ti chiede un consiglio, poi lo voglia davvero. Prima ancora che finisca la frase in cui dico che secondo me dovrebbe “lasciarl..”, lei cerca di farmi cambiare opinione suggerendomi che lui, mentre scopava con quell’altra, indossava un calzino blu, uno dei due calzini blu che lei gli ha regalato non so quando, e questo forse nel suo linguaggio immaginifico di ragazzo ambiguo e ribelle potrebbe voler dire che non riesce a spogliarsi dell’amore che prova per lei eccetera, e a questo punto io capisco che non vuole veramente un consiglio, capisco che ha scelto coscientemente di marcire appresso a quel tale, e so che, con tutta evidenza, ha una quantità di rospi da ingoiare che combacia perfettamente con la quantità di rospi che il tale ha da produrre e distribuire, e forse quella cosa del calzino è anche vera, non bisogna mai considerare le coppie o le relazioni tra le persone da un punto di vista etico e oggettivo e razionale, ma sempre e solo da un punto di vista di biosistema emotivo che ha un suo equilibrato squilibrio interno.
Perciò io non do più consigli. Un tempo mi piaceva darli, ma ero vittima della presunzione. I consigli si chiedono soltanto per dire agli altri “guarda che mirabolante vita mi sta capitando” e i consigli si danno per dire agli altri “guarda di che mirabolante razionalità io dispongo”, poi ciascuno per la sua strada, con gli eventi che non cambiano di una virgola. Quando mi aspettavo di ottenere un qualche effetto e poi vedevo che la persona faceva ugualmente di testa sua, mi sentivo frustrato. “Ma come,” mi dicevo, “tutto quel raziocinio, quei discorsi, quella retorica, quel buon senso, e poi lei è rimasta con lui e ha continuato a pedinarlo e a trovarlo sui cofani delle macchine di altre. Ma allora… le piace!”.
Sì, esatto, le piace. Sei finalmente arrivato all’essenza finale della mente delle persone.
Se vuoi ricavare soddisfazione dal consigliare la gente, se vuoi quel tipo di soddisfazione che consiste nel vedere i tuoi consigli realizzati, come se la persona che ti chiede consiglio avesse una pulsantiera di comando, l’unico modo è cercare di capire che cosa vuole e, poi, darle il consiglio che vuole sentire. Dille: “Io non penso che averlo trovato  a scopare con quell’altra sul cofano della macchina significhi che lui non ti ami. Probabilmente ti ama. Anzi, forse è la prova che ti ama. Forse è solo un modo per dirti che tu sei la donna della sua vita e che, se resisti alla prova e alle prove che verranno, lui smetterà di tradirti con donne che poi alla fine non gli piacciono nemmeno, e ti sposerà e vivrete insieme, felici, per sempre. A meno che non ti piaccia pedinarlo e scoprire che facevi bene a sospettare, anche quella è una perversione plausibile e dà una certa soddisfazione, devo dire. Soffri per quello che hai scoperto, ma godi scoprendolo. Comunque sia, non lasciarlo. Continua. Qualsiasi cosa tu abbia in mente di fare, continua: è senza dubbio la decisione giusta”.
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

AR, QI & CC

Il QI da solo non serve a niente, è solo un numero da giocare al lotto (in tal caso dovrebbe essere molto piccolo). Il QI diventa una valutazione attendibile delle capacità intellettuali solo se viene moltiplicato per CC, il coefficiente di comprensione. Preparare un test che stimi il CC va al di là degli scopi di questo blog, che sono, lo ricordo, conquistare il potere con regolari elezioni on line e sterminare la razza umana. No, scherzo. Non è il mio scopo, è solo un sogno.
Naturalmente le persone boriose hanno un CC molto vicino a zero, infatti, come dovrebbe essere chiaro dopo gli ettolitri di inchiostro che avrei versato su questo argomento se l’avessi scritto su carta (nota per il futuro: come la tecnologia ha complicato l’uso delle frasi fatte), la comprensione di un essere umano è fondamentalmente la sua apertura alla possibilità di essere un idiota.
“Idiota” non è da intendersi in senso clinico, ma in senso esistenziale. Gli idioti clinici, quelli col cervello rotto, sono rari e sono solo persone da compatire, non c’entrano niente con questo discorso. Quando si dice che uno è un idiota, si dà sempre per scontato che lo sia nello stesso senso di un idiota clinico, ma non è così. L’idiozia può essere solo un modo di essere, non una condizione permanente del cervello. L’idiota è solo una persona che fa o dice cose idiote e lo è solo ed esclusivamente nel momento in cui dice o fa quelle cose. Per esempio, essere convinti di non dire e di non fare mai cose idiote è una cosa idiota.
È sbagliato pensare che esistano gli idioti e i non idioti, perché l’idiozia è la condizione originaria e congenita dell’essere umano, è il suo modo di essere più prossimo, quello che gli viene più spontaneo. Uno può solo cercare di essere il meno idiota possibile. Che cos’è la vita se non un graduale e continuo liberarsi dalla propria idiozia? Si nasce che si è dei perfetti idioti e si dovrebbe sperare di morire un po’ meno idioti di quando si è nati. Solo chi di tanto in tanto si sente idiota può provare a esserlo un po’ meno.
Per farsi un’idea del proprio CC, basta farsi alcune semplici domande e cercare di rispondere con sincerità (purtroppo chi ha una scarsa comprensione è di solito anche poco sincero con sé stesso, il che renderebbe il test che segue completamente inutile se non fosse che ho una voglia matta di scriverlo).
Prima domanda: mi è mai capitato di avere torto?
Rispondere al volo “sì, un sacco di volte” non basta. Questo test non si fa fregare così facilmente. Per rispondere bisogna prendere carta e penna e menzionare nel dettaglio tutte le volte in cui si ha avuto torto (quando, dove, come e perché). La quantità di spazio bianco che resterà sul foglio sarà inversamente proporzionale al proprio CC. Importante: il foglio deve essere un A4, non un post-it.
Seconda domanda: conosco qualcuno più intelligente di me?
Rispondere “Einstein” non va bene. Anche rispondere “Einstein, Mozart, Socrate, Shakespeare e tutta la scuola di Francoforte” non va bene. Bisogna dire nomi di persone che si conoscono, di gente con cui si ha a che fare più o meno tutti i giorni: amici, parenti, colleghi, vicini di casa, eccetera, meglio se antipatici. Troppo comodo ammettere la superiorità intellettuale di morti illustri, gente che se ne sta al sicuro sottoterra.
Sentirsi i più intelligenti del mondo non significa necessariamente essere persone con una scarsa comprensione, ma è sicuramente un brutto segno. Se ti senti il più intelligente di tutti i casi sono due: o sei un genio o sei un perfetto idiota, non ci sono vie di mezzo. Beethoven pensava di essere il musicista migliore del suo tempo e aveva ragione, sarebbe stato stupido da parte sua non pensarlo. Ma siccome l’apparizione di un Beethoven sulla Terra si verifica grosso modo due o tre volte al secolo, se uno si crede Beethoven ha ottime probabilità di essere un idiota. Sia chiaro, idiota sempre nel senso eccetera eccetera.
Terza domanda: mi sono mai sentito idiota?
Siccome sentire la propria idiozia è fondamentale per poterla superare e progredire verso forme di idiozia sempre meno grossolane, uno che non si è mai sentito idiota è uno che è rimasto esattamente com’era al momento della nascita: un rompicoglioni egocentrico che detta ordini frignando.
Rendersi conto di aver detto o fatto qualcosa di idiota dovrebbe essere un momento di festa, bisognerebbe essere grati a chi ce l’ha fatto notare, invece le persone si offendono. Questa cosa è veramente assurda. Anche far notare un semplice errore di grammatica, cosa che non mette minimamente in discussione l’intelligenza di una persona, è una cosa che fa imbestialire e di solito uno lotta con tutte le sue forze per difendere il proprio errore, inizia la guerra dei dizionari, le discussioni sull’Accademia della Crusca, e alla fine, quando proprio deve cedere di fronte all’evidenza che “vai a dritto” è solo un’espressione regionale, se la prende con l’irrazionalità della lingua italiana: “vai a sinistra, vai a destra, vai a dritto. Logico!”.
Quarta domanda: perché tutto quello che mi riguarda è così interessante?
Questa è una domanda trabocchetto.
 
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Domani – 9.2.010

Domani? Adesso ti dirò domani cosa.

ORE 7: sveglia a Castel di Sangro, buio, freddo. Tanto sonno. "Fabrì, per il bagno sei il primo (così io continuo a dormire)".

ORE 8: Alberto continua la sua infinita toeletta, effettuata in un tempo variabile dalle due alle tre ore. Colazione. Caffè. Non ne basterebbe una fabbrica.

ORE 9: in viaggio per l’Aquila, fra un sorpasso ed un camion. La radio impazzisce per i troppi cambi di stazione. Fabrizio ringrazia sentitamente Nostra Signora del Codice della Strada.

ORE 10: sbarco a Bazzano, vista asilo. Demenza e gnocca. Industrie e tir. E noi lì, a chiederci che cazzo ci si faccia in mezzo a quel nulla.

ORE 11: esame. Fabrizio pensa e ripensa alla filologia, prima o poi sarà il suo turno. Mentre aspetta, Alberto diverrà preda di sonno e di scazzo.

ORE 12: ma non finisce mai?

ORE 13: Fabrizio sta per essere bocciato.

ORE 14: Fabrizio è stato promosso, non si sa bene per quale assurdo motivo. Salve di cannone. Bottiglie di champagne in volo. Alberto si converte al Mourinhanesimo. E’ finita.

ORE 15: dopo un lauto pranzo nel lussuoso locale del porchettaro volante, spasmodica attesa per la consegna del libretto in segreteria. Fabrizio ha attacchi di panico in serie, ed afferma di aver visto gli alieni blucerchiati. Alberto lo uccide per l’insopportazione.

ORE 16: mentre la segreteria sta per chiudere, Fabrizio risorge dopo aver visto Carmencita. Tripudio di sentimentalismo e di commozione. Scene da telenovela, mentre Alberto chiama il prete per benedire la coppia.

ORE 17: matrimonio in corso. Testimoni dello sposo: Alberto & Angelo Russi. Testimoni della sposa: Fabio Redi e Silvia Mantini.

ORE 18: luna di miele. C’è bisogno di dire altro?

ORE 19: ricevimento al McDonald’s aquilano. Trenta invitati di gran riguardo, tra cui: Giannino di Tommaso, preside della Facoltà di Lettere e Filosofia; Andrea e Americo, i nuovi Stanlio ed Ollio marsicani; Crizia, elemento chimico della stronzaggine; Emanuele, giovane padawan; Lorenza, donna dal buffo cappello; Giorgia, la donna dai capelli strani; qualcun altro, scelto rigorosamente a caso.

ORE 20: partenza dello sposo per Roma, Carmencita al seguito. Alberto, commosso, saluta la coppia in viaggio per la Calabria, e torna a Castel di Sangro, dove narrerà la lieta novella a parenti ed amici.

ORE 21: la Tiburtina saluta gli sposi, mentre Alberto ancora piange per l’emozione.

ORE 22: svanisce l’effetto della cocaina, Fabrizio si riprende e si ritrova nel gelo della Capitale solo, stanco, triste ed affamato.

ORE 23: si spalancano le porte della Calabria, decimo girone infernale, residenza luciferina e ‘ndranghetista. Alberto va a nanna, e Fabrizio si prepara per sette ore allucinanti e millequattrocento chilometri di niente.

ORE 24: Fabrizio non prende sonno, ascolta musica e pensa a Carmencita. Alberto lo bastonerà in sonno, probabilmente ridendo come un matto.

ORE 25: ehi, il tempo è scaduto.

Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Il Sostrato della Parola

Se ti sei espressa male posso anche aver trovato un senso, se ti sei espressa bene posso anche non averci letto un accidente di niente, nonostante la frase sia sempre la stessa: potrà sembrare un banale gioco di… parole, per l’appunto, ma il fatto stesso che possa sussistere uno scarto fra il tuo spiegarti ed il mio capirti dovrebbe suggerirci che, sì, in teoria dovrebbe esistere un senso univoco ed un’obiettività dei vocaboli, se c’è una lingua (artificiale!) e se c’è un dizionario, ma, in pratica, non è così, non è assolutamente così, è come la pioggia o l’umore di mia madre, non ci si può fare niente.
Così come il messaggio, esistono un mittente ed un destinatario, i loro propri cervelli bacati e la loro ottusa e convinta soggettività, le loro idee, le loro opinioni, i loro modi di stappare le lettere chiuse in bottiglia, non è solo questione di generiche incomprensioni, dietro – e dentro – c’è molto di più, e senza sarebbe silenzio, o, che so, alfabeti muti sospesi per aria, o noia, molto probabilmente, monotonia, pura e semplice ripetitività.
Non mi piacerebbe vivere in un mondo senza incomprensioni, onestamente, né vorrei abitare in un universo senza interpretazioni, purché non siano moltiplicate all’infinito o ricoperte di una banalità fantascientifica, e pazienza se ad un “don” non corrisponde quasi mai un “din”, o un “tic” ad un “tac", se devo fare i disegnini per illustrare correttamente la situazione, se devo giustificarmi per il “tono” usato, se intendevo tutt’altro, se “sono stato frainteso”, se c’è chi attribuisce un valore comunicativo al silenzio all’interno di una relazione, se esiste la “prostituzione intellectuale”, se c’è chi si diverte ad interpretare per fare ancora più casino, se il mondo è meno di una lisca di pesce, se la fiera-mercato dell’esistenza è piena di meschinità ed ipocrisie, in una gara in cui il miglior sordo sarà sempre e comunque chi non vorrà sentire.
Certo, forse dopo può scocciare l’accorgersi di predicare a vanvera in un deserto sconfinato, o lo scoprire che le parole sono estremamente pericolose, tanto da doverle maneggiare con cura, perché sono le nostre piccole bombe atomiche, un bottone d’incoscienza o di rabbia e salta tutto.
Stronzate, forse, ma, comunque sia, insomma, più che richiedere ad altri lo sforzo di capirci o un improbabile patteggiamento su d’un comune canale di comunicazione, dovremmo essere sempre noi ad impegnarci – con cartelloni, note a margine, appunti, libri, manuali, guide turistiche – nel farci comprendere.
Pubblicato in Senza categoria | 1 commento

Il Primo Motore Immobile al Caffé

Prima che succeda, non te la godi sia perché non sta succedendo sia perché vuoi che il tempo passi in fretta in modo da arrivare alla cosa da goderti e finalmente godertela e questo fa sì che, oltre a non goderti quello che stai aspettando (non sta succedendo), non ti godi nemmeno tutto il tempo che lo precede perché: uno, è un tempo rovinato dall’ansia per l’attesa; due,  ti sembra un tempo qualitativamente inferiore in quanto tempo-che-precede-un-evento-che-renderà-il-tempo-un-tempo-superiore. E ok. Poi, però, mentre succede, non te la godi perché – oh mio Dio! – ha cominciato a succedere, sta succedendo, il che ti fa partire una specie di timer nel cervello che scandisce il tempo di accadimento della cosa che dunque ha cominciato a scivolare via e tu sai che scivolare non è la sua condizione naturale permanente o di quiete, sai che a un certo punto smetterà di scivolare e sarà definitivamente finita e non l’avrai più e verrai abbandonato dalla cosa nel tempo-dopo-che-la-cosa-è-successa, un tempo terrificante perché non solo inferiore in quanto successivo al tempo di un evento superiore, e non solo inferiore in quanto tempo dominato dal pensiero e dal ricordo del tempo dell’evento superiore stesso, ma anche per il fatto che – a meno che non ti inventi subito un altro evento superiore da aspettare – è un tempo privo di un evento superiore da aspettare, un tempo inferiore e vuoto a tutti gli effetti, un tempo malinconico e inutile che nella tua decisiva opinione nessuno saprebbe o avrebbe voglia di provare a godersi. Dopo che la cosa è accaduta, figurarsi, non te la godi sia perché non c’è più (contento?), sia perché, con tutte quelle ansie e quelle paure e quei pensieri, di’ la verità, non te la sei goduta nemmeno mentre c’era.
Meglio una vita senza eventi, allora. Ma poi ci sono le cose che possiedi.
Quando possiedi una cosa che ti dà felicità, invece di goderti il fatto di averla, ti tormenti con la paura di perderla (cosa che regolarmente succede, specie con le cose vive, che appena percepiscono di essere così importanti per te che, se tu le perdessi, ne soffriresti, guarda caso si perdono, si lasciano perdere, un po’ perché nessuno vuole una simile responsabilità, un po’ perché loro si fanno possedere da te per fini edonistici e le responsabilità sono quanto di meno edonistico esista al mondo e dunque preferiscono cercare qualcun altro che le possieda in modo più rilassato e che, possedendole, le faccia sentire bene, un po’ perché, diciamolo, le cose vive sono generalmente stronze), passi tutto il tempo a pensare “oddio, e se la perdo?” e così non te la godi per niente, non riesci a tenere a bada l’ansia e l’afflizione determinate dalla paura di perderla e che la sua progressiva, lenta e sempre più apparentemente inevitabile reificazione ti procura, e così non ti rilassi e non te la godi e la cosa in questione diventa, invece che motivo di gioia, motivo di sofferenza, il che produce lo strano e paradossale effetto di un individuo (tu) che soffre perché un giorno potrebbe perdere la causa della sua sofferenza, tanto che, quando poi la perdi, finalmente dovresti rilassarti e sentirti libero e  invece ti struggi, perciò, oltre a non volere che le cose accadano, non vuoi neanche averne, e ti sei fatto la pensata che trascorrere la vita in una stanza senza persone che possano perdersi né oggetti che possano rompersi né eventi che possano succederti sia la strada giusta, ma non è così, perché quando non hai più niente ti rimani pur sempre tu, ti rimane il tuo corpo, il tuo essere vivo, le cose che hai sono i tuoi organi, le cose che ti succedono sono i succhi gastrici e, alla fine, tu sei la persona che potrebbe perdersi, il che ti dà la malinconia più grande di tutte, perché la mancanza di te ti riesce insopportabile, ti manchi già adesso da vivo, figuriamoci dopo.
Pubblicato in Senza categoria | 1 commento

2009

… avrei voluto scrivere tanto, ma poi la verità è che quest’anno si riassume con poco: un grande amore, un grande errore, tante pagine lette, luoghi visti, tetti rossi, progetti realizzati, lotte perdute, foto scattate, parole ascoltate, persone incontrate perdute mai partite ritrovate riperdute, molti sorrisi, troppi treni, troppe lacrime, troppi tasti pigiati, baci e carezze che quelli, invece, non son mai troppi, un’assenza grande e una speranza che mi sussurra all’orecchio che ne vale ancora la pena. E ‘sti cazzi…
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Righe sotto l’Albero – 23.12.2009

Però, che freddo che fa.
Aria di neve, diresti tu, sorridendo, perché a Catanzaro il bianco candore che fa tanto Natale non si vede da un po’, e perché sai benissimo quanto non sopporti il gelo, dopo mesi e mesi passati fra i monti d’Abruzzo.
E che buio, in quest’angolo di città, che squallore, questo androne barocco andato in rovina, tutto come al solito. Quella macchia di umido là mi sembra proprio di conoscerla. Ed anche la lampadina. Scommetto che in questi anni non l’hanno mai cambiata.
Vabbé, saliamo, dai. Sei piani a piedi. L’ascensore non esisteva, nel Seicento, no?
Il tuo palazzo con troppi portoni e troppe finestre. Lo trovavo un po’ stucchevole già due anni fa, il tuo palazzo. Come tutto il resto, d’altra parte. Il Natale. Il parentame. I doni. I giardini. Althea ed i suoi superamici. Gli artisti insulsi e le ragazze di buona famiglia che se ne innamoravano.
Ancora il primo piano. E io che arranco col mio fiato corto ed i pochi regali ben impacchettati nelle mani.
Chi voglio prendere in giro? Non sono venuto fin qui per quella libreria di cui mi hanno parlato, “è in un posto bizzarro, pensa, proprio dietro alla fermata del 40, ha di tutto, ma proprio tutto, anche quei testi assurdi di scrittori strampalati che piacciono soltanto a te”.
Cristo. Persino il tram avrei preso, se del tram non restassero solo pochi metri di binari nel piazzale della prefettura. Figurati, poi, se venivo allo sprofondo solo per mettere sotto l’albero altri euro per me. La boutade di un matto. Il pellegrinaggio sui luoghi della memoria. Disagio mentale dovuto ad abuso di idiozia, direbbe qualche mia cara amica. Lei, che ha già un piede nella menopausa, ‘sta stronza.
Uh, ecco la porta della puttana. Era simpatica, tutto sommato, quando ci invitava a prendere il the nella sua cucina dai sapori vittoriani. Qui a fianco c’era quella pazza, invece, ed a giudicare dalla puzza di cavoli c’e ancora. Il colonnello in pensione è morto di sicuro, aveva novant’anni già allora, “l’uomo che da solo ha fatto perdere all’Italia la seconda guerra mondiale”, dicevo, e tu ridevi. Ne dicevo tante di queste cazzate, parlavo sempre io, a raffica, e stavi ad ascoltarmi per ore. Mi piaceva tanto insultarti, per scherzo, o per stuzzicarti, o per farti i complimenti. Hai sempre avuto una luce oscura negli occhi, la tua ricchezza da pezzenti.
Le cose che si sopportano quando si è innamorati, credo.
Bravo ero bravo, comunque.
Anche a scrivere ero bravo, almeno per quanto ne dicevi tu.
Madonna, quanto t’ho scritto. Tonnellate di carta, lettere, biglietti, disegni, post-it, quaderni interi. Quando non parlavo, scrivevo. Peccato che, forse, hai dovuto o voluto distruggere, dimenticare tutto.
Ma il bello, in fin dei conti, sarebbe arrivato se avessi scritto anche tu: “provaci”, insistevo, “racconta un sogno, una cosa che hai fatto, scrivimi almeno una frase”.
E tu niente.
Era diventato un punto d’orgoglio: nemmeno una riga. Neanche quando te ne sei andata.
Quarto piano. Pure qui, alle porte, tutti nomi che non ricordo più.
Ma, insomma, che cazzo sto facendo?
Davvero spero di bussare alla porta di casa tua e trovare te che, come me, in due anni non hai fatto altro che aspettarmi, dedicandomi una riga dopo l’altra, un pensiero dopo l’altro, un’alba dopo l’altra?
Si, vabbé, sarò un pirla, ma non fino a questo punto.
Te ne sarai andata, sicuro.
Una pediatra di grido non sei diventata, e neanche una ricercatrice famosa, non ancora, per quanto ne so.
Google ti confonde con migliaia di omonimi, Facebook figuriamoci.
Nemmeno il nome al citofono hai mai avuto, perché una stupida e lurida donna borghese non lo sei stata mai.
La cosa più probabile è che tu sia finita chissà dove, a dividere la tua vita con un uomo che non ami.
Oppure stai bene dove stai, ancora qua, nella tua stanza, a desiderare una sigaretta, a cadere dalle scale, sbadata come al solito, ed a guardare la luna sui tetti mentre piove.
No, no, basta, ricreazione finita, pellegrinaggio arrivato a destinazione. Mi fermo qui.
Scendo di nuovo tra la folla che non sa e non sa saprà mai, sperando che sia l’ultima volta, nella mia esistenza, in cui provo un simile senso di sgradevolezza, e torno alla mia tesi, alle mie chiacchiere, alla mia caccia da lupo solitario, oggi in branco, domani no.
A proposito. Domani sera cena dai miei, dopodomani pranzo da chissà chi altro, e poi il capodanno al mare, e via così. La mia vita… com’e che dicevi tu?
Sì, ecco, la mia vita di allegra tristezza.
Non male l’allegra tristezza, se dovessi dire come mi sento, adesso, direi proprio così.
Però, che freddo che fa. Ci scommetto che nevica. Dopotutto, tra due giorni è Natale.
 
E da dietro la porta
sento uno che sale
ma si ferma due piani più giù…
È un peccato, davvero,
ma io già lo sapevo
che comunque non potevi esser tu…
 
Ringraziamenti e scuse a Francesco de Gregori ed a Miic.
 
 
Pubblicato in Senza categoria | 1 commento

Saggio Socratico sulle Domande Inutili

Ieri sera, nel pub sotto casa, mentre ubriaco esaltavo le gesta di Milito e compagni, un tizio alza il volume della voce, così, d’improvviso, e sovrasta col suo tono le mie parole da tifoso invasato, il casino in sottofondo, lo strepitio di stoviglie e bicchieri, e l’insopportabile ronzio del chiacchiericcio più o meno soffuso dei tavoli.
Sulle prime, senza farci nemmeno troppo caso, non ho capito né chi fosse, né cosa volesse, né, tanto meno, cosa dicesse, troppa la birra scolata e troppa l’adrenalina che ancora sbuffava ad ogni respiro, ma, quando è salito sul bancone, facendo ballare le pinte e lasciando stupite le cameriere con quel suo vestito buffo e quel cappellino degli Yankees, allora, be’, non vederlo era un affare destinato a quelli con la testa già partita col primo treno o a quelli con il cervello andato a letto.
Sembrava uscito da un sandalone anni settanta, con quella solita tunichetta bianca da romano, greco, sumero o babilonese che ne faceva il vegliardo consigliere dei vari Ursus, Ercole o Maciste, ma, diamine, con quel boccale in mano e con quel berretto in testa pareva un matto evaso dal manicomio, ci mancava solo che dicesse d’essere Napoleone o che esaltasse Loiero per farsi bollare apertamente come un malato mentale, per farsi prendere a badilate e per farsi rispedire in camicia di forza nella baraonda di matti da cui era scappato.
Continuava a parlare, ed ancora non lo capivo, farfugliava un qualcosa di non molto adatto all’orario, una sorta di predica in grande stile, verbosa e scocciante, forse era un missionario sceso in mezzo a noi tifosi per evangelizzarci, o un laureato in filosofia che aveva deciso di dar prova delle sue arringhe psicopatiche prima di farla finita, e, nel secondo caso, tutti quanti noi avventori, commossi ed impietositi, avremmo senz’altro contribuito a dargli la fine che meritava.
Tutto sommato, però, non dava alcun fastidio, non in un locale del genere, almeno, bettola per interisti abituati alle cose peggiori della vita, ma certo non l’avrebbero fatto entrare né in un McDonald’s né in qualsiasi altro posto per fighetti o gruppetti di idioti intruppati al bel vivere borghese, e poi un’attrazione vale l’altra quando si è ancora in trance per una vittoria al novantesimo, tanto più che il padrone non aveva ancora chiamato gli sbirri o l’ambulanza perché se lo portassero in caserma o all’ospedale, giusto per non privarci di questo simpatico vecchietto barbuto dallo sproloquio facile che girava coi sandali in una nuvolosa serata d’autunno.
Io continuavo a guardarlo con la faccia intontita, insieme agli amici ed agli altri clienti, ridendo per un nonnulla come tutti quelli che hanno l’alcol in vena, ma quello non ci faceva neanche caso, doveva essere un attore compassato, o, magari, un comico con un brutto copione, un pagliaccio che, alzato troppo il gomito, riproponeva il suo numero da circo, ma non piangeva, non era truccato, e, soprattutto, non faceva ridere, non per quel che raccontava, almeno.
Io, poi, non avevo ancora compreso una mezza parola del suo discorso, perché fra le sghignazzate ed i commenti l’acustica non era fra le migliori, soprattutto perché in quel teatro di solito andavano in scena solo e solamente bestemmie, urla di vario tipo e commenti tecnici molto personalizzati, e credo nemmeno quelli vicini a lui riuscissero a sentirlo in un modo decente, soprattutto le “barwomen”, se si dice così, troppo indaffarate fra ordinazioni ed avances per la notte incipiente e troppo prese da spine e da misurazioni mentali di aggeggi altrui.
Ad essere onesto, nonostante la vescica fosse sul punto di esplodere (da quando era iniziato il secondo tempo della partita, e da quando era iniziato lo show del vecchietto, nessuno aveva osato muoversi dalla propria sedia) e non fossi capace di esprimermi senza morir dal ridere sguaiatamente, un pensierino su una biondina stavo facendolo anch’io, specialmente visto che il livello del bicchiere, essendo a zero, mi portava dritto fino a lei, senza contare che la curiosità per il pazzo, in mezzo a tutto quel casino, cresceva sempre più, mentre bevevo e fantasticavo sulle conoscenze del kamasutra della tizia tutta tette marcata “Guinness”.
Così, trattenendomi a stento nelle parti basse (“andrò una volta finita la missione, è troppo importante”, mi sarò ripetuto un paio di volte, esecuzione perfetta di qualche paragrafo di qualche assurdo manuale di training autogeno), mi alzo dal tavolo, e, senza neanche pensarci, d’un tratto, quasi fosse una domanda spontanea nata nel cuore, rivolgendomi al pazzo, che da quando m’ero alzato dal tavolo fissava la mia andatura barcollante, gli dico: “Oh, Aristotele, ma che cazzo ti manca?”.
E, quello, senza scomporsi, nel suo tipico slang da antico greco, mi ha risposto: “Non sei stato molto attento a quel che ho detto, tipo: io sono Socrate, quell’altro non so nemmeno chi è”.
Era ovvio che accadesse: uno ubriaco, l’altro filosofo, morto, risorto e matto, è partito un dialogo illuminante, roba da film.
 
– Va bene, Socrate, Aristotele, stessa pasta, stesso pane. Sei lì sopra da mezz’ora, hai fatto il tuo teatrino, ma di quel che hai blaterato non c’ho capito niente.
– Male, malissimo! Ho parlato di verità per aforismi, roba che se l’avessi ascoltata a parlare saresti diventato limatissimo, sonante, fior di farina!
– Bella cagata: non faccio l’avvocato, non ho il Mercedes, non pratico molto la gente.
– Per Apollo, buon argomento. E io a credere, prima, che Zeus pisciava in un setaccio!
– Senti, coso, non dire quella parola o qui succede un disastro ambientale.
– Per il Caos, per l’Aere! Mai visto un uomo tanto rozzo, imbecille, stupido, e senza memoria.
– Avrai pur ragione, ma ti sei mai guardato allo specchio?
– Sono un filosofo di gran pregio e grande fama, so di non sapere, ma in realtà so tutto.
– Tipo?
– Tipo lo scibile universale.
– Seee…
– Tu chiedi, e ti risponderò.
– Seee…
– Allora, che vuoi imparare prima? Roba mai saputa Misure, ritmi, versi?
– Versi.
– Sul classico o sul moderno?
– L’uno vale l’altro.
– Non fare il pagliaccio, anche se non distingueresti una pietra da una montagna!
– Va bene, vai sul classico.
– Perfetto. “Sopra la campa la capra campa”…
– Eh?
– … “sotto la panca, la capra crepa”.
– Non per fare il difficile, ma questa la sapevo anch’io.
– Sconcio e cretino, dovevo ancora finire!
– Davvero?
– Sì, perdio!
– E come finiva?
– Prima ne devi imparare di cose: la regola degli animali maschili, per esempio.
– Montone, gatto, toro, cane, pollo…
– Vedi che succede? La femmina la chiami pollo, né più né meno come il maschio.
– Eh?
– Come? Pollo l’una e pollo l’altro.
– E come avrei dovuto chiamarla?
– Polla! L’altro, pollo.
– Polla? Bene, ovviamente, certamente, sicuramente! Guarda, ci metterei la mano sul fuoco!
– Ecco, di nuovo lo stesso errore: la mano la fai maschile e invece è femminile.
– No, aspetta: come sarebbe “fare maschile la mano”? Come dovrei chiamarla, da oggi in poi?
– Come? La mana!
– La mana, femminile?
– Così è la regola. Ed hai da imparare ancora i nomi di persona: maschili e femminili, quali sono?
– E torna… ne so a volontà sia femminili che maschili!
– Sentiamo!
– Maria, Lidia, Genoveffa, Sabrina, Domenica…
– E i maschili, li sai?
– A non finire: Fabrizio, Giuseppe, Attilio, Ugo, Andrea…
– Delinquente, questi non sono maschili!
– No?
– Assolutamente! Se incontri Andrea, come lo chiami?
– Come lo chiamo? Così: “Ohè, ohè, Andreaaa!”
– Vedi, Andrea lo fai femmina!
– …
– Oh, non importa, non capiresti comunque! Perdio, adesso siediti qua e…
– Che devo fare?
– Pensa a un guaio tuo.
– Qui no, ti prego, almeno qui no.
– Questo è l’unico modo per dimostrarti la mia scienza!
– E dire che ero qui solo per esultare, insultare, fottere e per bere birra…
– Ed allora vai a farti fottere, giovinastro stupido, rimbambito!
– SI, vabbé, dai, dicevo per dire!
– Cretinaggini! Al diavolo! Non ti insegno più niente!
– Perché? Dai, Socrate, ti scongiuro!
– Qualunque cosa impari, te la scordi subito!
– Ma sono ubriaco!
– Sì? Ed allora che cazzo chiedi a fare, se non te ne fotte niente?
 
Umiliante, letteralmente, davvero: cazzo chiedo a fare, se non me ne fotte niente?
Non sono più riuscito a spiccicare parola, ho preso la mia birra, l’ho scolata in un minuto.
Poi sono andato a pisciare, e, be’, insomma, è finita lì.
Pubblicato in Senza categoria | Lascia un commento

Emilian Brioches

Seccandomi a scrivere qualcosa di (più o meno) sensato, in arrivo sul binario tre, dal blog dell’intramontabile Chinaski, un vero e proprio capolavoro di verità.
 
C’era questa ragazza che era una mia compagna di classe del liceo e che io amavo con tutto il cuore dal profondo del mio cuore di sedicenne. L’avevo tampinata per tutta l’estate, con pazienza e infinito amore, tutte le mattine prendevo il motorino e mi facevo venti chilometri per andare a casa sua a portarle le brioche fragranti ancora calde per la colazione. Adesso, a ripensarci, mi vengono i brividi. Dio, le brioche per la colazione, che razza di perdente. Eppure al tempo mi sembrava una cosa dolce, anche lei diceva che era una cosa dolce, ma nonostante questo non c’era verso di arrivare alla sua vagina.
“In che cosa sbaglio?”, mi chiedevo. Forse era la marmellata. Forse dovevo lasciar perdere l’albicocca e provare con la ciliegia. O prenderle direttamente dei biscotti, del gelato, frutta fresca. Che razza di stupido sfigato senza speranza: non mi passava neanche per la mente che avrei avuto molte più possibilità restandomene a letto a dormire e dimenticandomi non solo di portarle la colazione, ma di lei, della sua casa, della strada per arrivarci e del fatto che avesse un apparato digerente. Ma come si fa ad essere maturi a sedici anni?
Spesso le brioche rimanevano dentro il sacchetto al centro del tavolo. Le mangerà più tardi, mi dicevo. Una volta le ho trovate, tre giorni dopo, sempre dentro il sacchetto ma sul terrazzo, per terra, vicino alle borse dell’immondizia. La cosa mi aveva ferito di una ferita che sanguina ancora. Che cosa avrei dovuto fare? Chiaro: andare a prendere le brioche ammuffite da tra giorni, prendere lei per un braccio, portarla al tavolo, farle un cappuccino freddo, metterle davanti una brioche spazzolando via tutte le formiche e dirle “ora tu mangi le tre brioche che io ti ho portato con tanto amore, altrimenti, te lo giuro, è l’ultima volta che mi vedi”. Lei avrebbe pensato “non dice sul serio. Non potrebbe mai rinunciare a me, in fondo lui è il mio povero, sfigato, idiotissimo zerbino domestico”, e dunque mi avrebbe risposto “ah ah… no, dai!”, sbattendo le ciglia e irrorando gli occhietti di liquido seduttore, e allora io non avrei dovuto fare altro che spingere con un dito una brioche verso di lei e dire “mangia. La cazzo. Di brioche”.
E basta, tutto qui.
Lei non le avrebbe mangiate, figurarsi, ma io me ne sarei potuto andare con il mio orgoglio ripristinato, intatto, anzi un orgoglio nuovo, e il giorno dopo avrei raccontato tutto a scuola e sarei diventato l’idolo dei maschi e l’idolo delle femmine, compresa lei, e lei mi sarebbe venuta a cercare, poco dopo, e io allora le avrei detto molto chiaramente “senti, qui si parla di amore ma fondamentalmente anche di scopare” e lì si sarebbe definitivamente decisa la questione e, visto che alla fine non me la sono fatta, probabilmente me la sarei fatta, oppure non c’era verso di farsela e allora meglio lasciar perdere e cominciare a perdere tempo appresso a un’altra.
Invece ho guardato le brioche abbandonate sul terrazzo con le formiche che ne prendevano dei piccoli frammenti, mi guardavano e mi facevano segno di “ok!” con le minuscole ditine filiformi che solo io riuscivo a immaginare come per dirmi “sono buonissime, porco mondo, sei davvero un tesoro, grazie”, e non le ho detto niente e, uno direbbe, almeno hai smesso di portargliele? Certo. Però ho cominciato a portarle altre cose e solo molto tempo dopo ho capito che lei faceva colazione con una tazza di caffè e delle amfetamine.
Ma, nella mia torbida visione della vita, stavo facendo strada, accumulando punti, macinando chilometri. Ogni brioche era un punto-vagina. Non dire niente e amarla comunque nonostante le brioche abbandonate sul terrazzo preda delle formiche, un altro punto-vagina. Accompagnarla alla fermata dell’autobus tutti i giorni e a volte spendere un capitale in miscela rischiando multe, botte e la vita per accompagnarla direttamente fino a casa, dieci punti-vagina. Dirle “andiamo in piscina?” e sentirsi rispondere “non ho il costume” e dire “aspetta qui” e andare a comprarle costume, telo da bagno, tappa-naso, pinne e bombola per le immersioni, tornare e suonare il campanello e sentirsi dire da sua madre che “è uscita con Pietro” e non avere la più pallida idea di chi cazzo possa essere Pietro ma nonostante tutto non dire niente, non lamentarsi, non suicidarsi sparandosi nei polmoni tutta la bombola d’ossigeno d’un fiato e invece tornare a casa per penitenza camminando all’indietro con le pinne sotto la canicola lungo la pista ciclabile che fiancheggia la statale dove passano di continuo tutti gli abitanti che entrano ed escono dal paese, mille punti-vagina.
Quanti punti occorressero per ritirare la vagina-premio, non l’ho mai scoperto. Forse un miliardo. O, con tutta probabilità, quelli non erano punti-vagina, erano punti zerbino, solo dei fottuti, inutili, mortificanti punti zerbino. Il premio era raggiungere il comprendonio.
Pubblicato in Senza categoria | 1 commento